Questa storia inizia in
un ospedale, dove due persone sfortunate si trovarono compagni di stanza e
di sventura.
Uno dei due oltre alla
malattia che lo legava al proprio letto quasi perennemente, era cieco e quel
disagio lo aveva reso passivo, rassegnato tanto da non sorridere quasi mai, a
chiunque lo andasse a visitare.
Neppure quelle dei
parenti, lo rendevano felice, anzi accentuavano ancor più quel disagio nel non
poter osservare i cambiamenti di ognuno, mentre raccontavano le ultime vicende
famigliari succedute.
La rassegnazione e
l’impotenza nel dover ricordare i soli suoi anni dei colori, della luce, delle
immagini che avevano preso forma attraverso gli occhi lo legavano ad un passato
che non sarebbe più tornato e la vita, con una ulteriore malattia che si era
aggiunta, aveva perso di significato.
L’altro degente, vicino di letto, pur avendo possibilità
motorie, già qualche volta aveva
rischiato di morire per quel suo “cuore pazzo”, così lo chiamava, ma la visione ottimistica che possedeva, trascinava chiunque con entusiasmo, anche il
compagno di stanza.
Fra loro i discorsi erano profondi mai lasciati al caso, ambedue
erano coscienti che il loro vivere, era attaccato ad un sottile filo di
speranza.
Così, il tempo li rese
sempre più dipendenti fra loro e alle volte, questa convivenza si spingeva sino
ad accettare le menomazioni ed i limiti dell’altro.
Non era raro che l’amico,
dal “cuore pazzo” raccontasse ciò che vedeva, descrivendo la luce, i colori
delle stagioni , i movimenti delle persone che sotto, nel viale, passavano
ignari di essere il frutto delle loro discussioni.
Gli occhi di uno
servivano ad ambedue, sino a che una notte tutto riprese a girare come quando
il destino vuole accanirsi , nella sua apparente crudeltà.
Il “cuore pazzo” si era
fermato al bivio e non avrebbe potuto che essere così, perché le sue
descrizioni erano diventate, col tempo, sempre più profonde e accurate, piene di una vita che sentiva, sarebbe terminata da un attimo all'altro.
Il compagno rimasto
volle salutarlo con qualche lacrima di rimpianto, quasi come un fratello,
rimanendo qualche minuto con lui, per ringraziarlo di quanto aveva scoperto, in
quella anima amica.
“Il tempo cancellerà le
mie lacrime”, pensò ormai rassegnato a tornare nel profondo buio di quella
stanza, spegnendo nuovamente le emozioni.
La nostalgia delle sue
fantastiche descrizioni però mancava, ora erano infinite giornate di silenzio a
ripensare momenti così vivi.
Il terzo giorno decise
che, anche se non poteva più ascoltare quella voce amica, almeno avrebbe potuto
ritrovare quelle emozioni attraverso il calore del sole sulla propria pelle e
chiese di essere spostato sull'altro letto, quello dell’amico scomparso, più
vicino alla finestra sul viale.
Dopo essere stato
spostato, domandò cortesemente all'infermiere di lasciare aperta la finestra da
dove era solito ascoltare le descrizioni dell’amico, ma la risposta fu:
“Mi spiace per lei... ma
non ci sono finestre, su questa parete....”
A.Epstain (2)
tratto da: finestra-sul-po-a-carmagnola |
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